Utili record! Quante volte lo abbiamo sentito dire?
Io molte volte, e è sempre finita male.
Prendo spunto da questo articolo recentissimo del Sole 24Ore:
https://www.ilsole24ore.com/art/utile-record-le-banche-italiane-2024-oltre-46-miliardi-112-miliardi-3-anni-AHmtjHnB?refresh_ce=1
Mi metto a leggere e trovo che la maggior parte degli utili deriva dagli interessi passivi:
Benissimo, no?
Andiamo a prendere un altro articolo del Sole24Ore che ci spiega come funziona la contabilità delle banche e come si arriva a numeri così belli:
https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2016/10/04/storia-quasi-breve-del-risk-management-nelle-banche/
L’articolo è un capolavoro! Una vera e propria lezione che meglio di così non poteva essere scritta.
scritto da Econopoly il 04 Ottobre 2016
TASCHE VOSTRE
Pubblichiamo un post di Riccardo Tedeschi, senior specialist di Prometeia e professore a contratto presso l’Università di Bologna. L’articolo è stato pubblicato anche su L’Atlante, il blog di Prometeia –
Il rischio è una “brutta bestia”, perchè è immateriale e non si vede né si sente: per poter gestire il rischio occorre imparare a misurarlo.
Misurare però è solo il primo passo per poter gestire il rischio, ma non è di per sé sufficiente, occorre poi imparare a governarlo.
Intendiamoci bene: è fin dal tardo medioevo agli albori dell’attività bancaria che i banchieri sono abituati a gestire il rischio di credito, che rappresenta “il” rischio principale cui essi sono esposti. I banchieri lombardi che a partire dal 1100 operavano in Francia, Germania ed Inghilterra utilizzavano già efficaci tecniche di mitigazione del rischio di credito, quali ad esempio la richiesta di cessione in pegno di oggetti di valore (1).
Tuttavia è solo negli ultimi 25 anni della nostra storia più recente che si inizia a parlare di risk management nel mondo delle banche. Se il risk management fosse un essere umano potremmo dire che oggi abbiamo di fronte un individuo “nel fiore dei suoi anni” e può essere interessante ripercorrere le sue tappe di sviluppo: infanzia, adolescenza e maturità.
L’INFANZIA
Durante l’infanzia i bimbi devono imparare a far tutto: a parlare, a mangiare, a muoversi e soprattutto a relazionarsi con gli altri.
L’infanzia delle tecniche di gestione dei rischi finanziari può essere collocata nel XX secolo, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale con lo sviluppo dei mercati finanziari nei paesi più industrializzati, tra la fine gli anni ‘50 e la seconda metà degli anni ‘80.
Ancora non esisteva una figura specializzata nella gestione dei rischi e gli operatori finanziari responsabili della gestione dei portafogli titoli e crediti facevano un po’ tutto. All’inizio era una vera e propria “Babele” di misure di rischio finanziario. Ogni segmento del mercato finanziario aveva i suoi indicatori di rischio specifici e il suo linguaggio specifico.
Gli operatori del mercato obbligazionario usavano le duration (2) dei bond, un indicatore introdotto negli anni ’30 che consentiva di misurare la reattività dei prezzi delle obbligazioni alle variazioni dei rendimenti di mercato.
Gli operatori del mercato azionario usavano il beta (β) – introdotto nei primi anni ’60 dalla cosiddetta teoria CAPM (3) – ovvero il coefficiente che misura il comportamento di una azione rispetto al mercato, ovvero la variazione che un titolo storicamente assume rispetto alle variazioni di un indice di mercato.
Gli operatori del mercato del credito usavano i rating, veri e propri “voti” pubblicati dalle agenzie di rating, che consentivano di associare al nominativo di un debitore o di un emittente una valutazione del merito creditizio e una probabilità di insolvenza.
Tuttavia le diverse misure di rischio “non si parlavano tra di loro” erano cioè espresse in “unità di misura diverse” e non consentivano di fotografare nel suo insieme il rischio totale di portafogli complessi, composti da diversi tipi di attività come quelli delle banche. Inoltre tali misure di rischio non fornivano nessuna informazione circa l’evoluzione della corrente situazione di mercato né sulla potenziale perdita inattesa in caso di variazione negativa dei fattori di rischio.
Fischer Black
Nella seconda metà degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80 si sviluppano i mercati dei cosiddetti contratti “derivati”: futures, swap e opzioni, che rappresentano ancora oggi i principali strumenti per la copertura dei rischi finanziari. Un impulso enorme allo sviluppo dei mercati dei contratti di opzione venne in quegli anni dai contributi intellettuali di un signore di nome Fischer Black: costui sta alla moderna finanza quantitativa come Isaac Newton sta alla fisica moderna. Fu lui a gettare le basi teoriche della teoria della valutazione delle opzioni (4) e relative tecniche di replica, ma fu anche lui a proporre uno dei modelli di evoluzione dei tassi di interesse più originali dell’epoca (5), nonché uno degli approcci alla gestione dei portafoglio di attività finanziarie a tutt’oggi più utilizzati (6).
È dopo i fallimenti delle banche americane (c.d. Savings and Loans) legate ai rialzi dei tassi di interesse degli inizi degli anni 80 che iniziano a svilupparsi le prime tecniche di asset and liability management, basate sull’idea che le attività e le passività delle banche devono essere gestite in maniera integrata e coordinata per evitare rischi di compressione del margine di interesse delle banche a seguito di variazioni di livello dei tassi di interesse.
Tuttavia è solo negli anni successivi alla crisi (7) dei mercato azionario USA del 1987 che le maggiori case di investimento americane, si pongono il problema di sviluppare propri modelli interni di misurazione dei rischi: di tutti i rischi cui sono esposte.
L’ADOLESCENZA
Durante l’adolescenza i giovani crescono in maniera molto rapida, si sentono invincibili e vivono intense passioni d’amore e nuove esperienze che però a volte terminano male. Più o meno la stessa cosa è successa alle tecniche di risk management tra gli inizi degli anni ’90 e la crisi finanziaria del 2007-8.
Sono del 1988 (8) gli accordi di Basilea 1 tra le autorità di vigilanza mondiali, che introducono un requisito minimo di capitale che tutte le banche devono detenere per fronteggiare le perdite inattese derivanti dai rischi di credito. Tale requisito è calcolato con metodi standard molto semplificati, ma deve essere rispettato da tutte le banche del mondo.
Dennis Weatherstone
Sempre sul finire degli anni ‘80 Dennis Weatherstone – amministratore delegato della casa d’investimento specializzata nell’acquisto di titoli obbligazionari e azionari J.P. Morgan – chiese ai propri analisti esperti di finanza e statistica di elaborare un documento, da produrre con cadenza giornaliera, entro le 4:15’ pomeridiane (il famoso “4:15’ p.m. report”) che riassumesse in una sola cifra in dollari “quanti soldi rischiava la banca, su tutti i sui portafogli in essere, su un certo orizzonte temporale (es. 1 giorno o 10 giorni) e con un livello di confidenza molto elevato (es. 99%)”.
Nasceva così il concetto di Valore a Rischio (VaR): un’idea semplice e potente al tempo stesso, anche se con non poche complessità implementative. Fin dalla sua introduzione il VaR apparve essere uno strumento molto più ricco e flessibile rispetto alle altre misure di rischio tradizionali in quanto: fornisce una misura di rischio comune tra diverse posizioni e fattori di rischio; consente di aggregare in un singolo numero tutti i diversi tipi di rischio di un portafoglio (tassi, cambi, prezzi azionari, credito, …) oltre a quantificare la perdita potenziale inattesa, contiene una informazione utile circa la probabilità ad essa associata ed è espresso in unità di moneta (euro).
Nel 1994 J.P. Morgan decide di rendere pubblico il documento tecnico che descrive la propria metodologia di misurazione ed aggregazione dei rischi (denominata RiskMetrics). Inizia così il periodo di rapida crescita dei modelli e delle tecniche di misurazione dei rischi che a tutt’oggi caratterizzano il risk management delle banche. Solo tre anni dopo nel 1997, quasi in contemporanea, vengono pubblicati tre documenti tecnici: Creditmetrics (di J.P. Morgan), CreditRisk+ (di Crédit Suisse) e Credit Portfolio View (di McKinsey) che introducono altrettanti modelli di misurazione del VaR per i portafogli di crediti su un orizzonte annuale.
Da quel momento in poi e per successivi dieci anni è tutto un fiorire di pubblicazioni e modelli su tematiche di risk management. Le società di consulenza iniziano a sviluppare e a proporre alle banche clienti sistemi informativi dedicati alle misurazione dei rischi di ogni tipo: rischi di mercato, di credito, operativi, di tasso. Le banche d’affari (e le società di consulenza a ruota) fanno a gara a chi introduce il modello più sofisticato e complesso, senza preoccuparsi troppo di come vengono stimati i parametri di input di tali modelli, tanto che spesso tali parametri dipendono da variabili non osservabili direttamente sui mercati (9).
Nasce in banca la figura professionale del risk manager – l’addetto alla misurazione dei rischi – e le autorità di vigilanza si preoccupano di suggerire che tale figura dovrebbe essere gerarchicamente indipendente da coloro che in banca assumono i rischi acquistando titoli o erogando crediti.
In parallelo il mondo della finanza derivata e soprattutto della finanza strutturata conosce un vero e proprio boom.
Blythe Sally Jess Masters
Questa volta una donna, Blythe Sally Jess Masters, sempre di J.P. Morgan, introduce un contratto derivato, denominato Credit Default Swap (CDS), che consente il trasferimento del rischio di credito tra operatori finanziari dietro il pagamento di una commissione periodica: una sorta di assicurazione dal rischio di insolvenza dietro versamento di un premio. Il mercato dei CDS e dei derivati creditizi registra uno sviluppo straordinario tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000. Particolarmente di successo è l’introduzione dei cosiddetti “indici su CDS”, cioè degli indici costruiti sul valore di “panieri” di CDS rappresentativi delle aziende americane, europee o giapponesi. La loro diffusione e successo tra gli operatori finanziari diffonde la sensazione che il rischio di credito possa essere originato, prezzato in maniera precisa e gestito mediante trasferimento “ad altri”.
In parallelo allo sviluppo del mercato dei derivati cresce un altro mercato quello delle cosiddette “cartolarizzazioni dei crediti”: il modello è quello detto “originate and sell” (crea e vendi).
Una banca affida un cliente, gli concede un mutuo ad esempio per l’acquisto di una casa, poi accumula un bel pacchetto di crediti omogeneo, quindi quando il portafoglio ha raggiunto una certa dimensione lo “vende” a qualcun altro. Direttamente a un’altra banca? No lo vende a una società appositamente creata (10) che acquista tali crediti emettendo obbligazioni (11) caratterizzate da rischi diversi (alcune a rischio elevato, altre a rischio medio, altre a rischio basso) e le rivende a investitori istituzionali sparsi in tutto il mondo: altre banche, società di assicurazione, fondi pensione e così via.
Le società di rating certificavano il grado di rischio delle obbligazioni emesse da tali società apponendo il loro bollino di garanzia e se i rischi impliciti nel portafoglio apparivano troppo elevati grazie al magico mondo dei derivati si poteva modulare il grado di rischio trasferendolo “ad altri” (ad esempio mediante CDS o swap di tasso). E se il cliente non pagava le rate del mutuo? Nessuna paura, vi erano le garanzie ipotecarie sulle case che mettevano al riparo i creditori finali.
Una nuova era di progresso dell’innovazione finanziaria sembrava avanzare inarrestabile: le migliori menti del mondo della fisica, matematica e statistica ed economia venivano assunte dalle banche d’affari per i propri desk di trading su derivati o di finanza strutturata.
La fiducia nei modelli matematici per la stima dei rischi è così elevata che la nuova normativa varata dalle autorità di vigilanza a livello internazionale nel 2003, i cosiddetti accordi di Basilea 2, consentono alle banche di usare i propri modelli interni di stima dei rischi di credito e di mercato per quantificare i requisiti minimi di capitale che le stesse devono detenere.
Ma come scrisse giustamente una giornalista finanziaria del Financial Times, Gillian Tett, in un suo famoso articolo del 2010 (12), citando l’antropologo francese Pierre Bourdieu: “Il modo in cui le élite rimangono al potere in quasi tutte le società non è solo controllando i mezzi di produzione (la ricchezza), ma anche influenzando la mappa cognitiva con cui la stessa società descrive se stessa ed il mondo che la circonda”. E tale mappa cognitiva non è definita solo da quanto viene discusso pubblicamente, ma anche e soprattutto da ciò che non viene discusso in pubblico: ad esempio perché determinati argomenti sono considerati noiosi, irrilevanti, tabù o semplicemente impensabili.
Nessuno o quasi (13) nessuno, salvo qualche rivista specializzata, si rese conto dell’enorme iceberg di crediti cartolarizzati che si andava accumulando in giro per il mondo. Quando nei primi mesi del 2007 il rallentamento dell’economia americana innescò le prime insolvenze sui mutui cartolarizzati e le banche cercarono di vendere le case dei mutuatari per rientrare dei loro crediti, inconsapevolmente misero in moto una rapida discesa dei prezzi immobiliari e improvvisamente il valore delle garanzie non bastò più al rimborso dei crediti erogati.
Il terrore si diffuse sui mercati finanziari. Improvvisamente ci si rese conto che nessuno era in grado di calcolare esattamente il valore di tali strutture finanziare: troppo complessi i modelli, troppo eterogenee le strutture contrattuali e soprattutto pochissima trasparenza e disponibilità dei dati necessari per stimarne il valore.
Un vero e proprio “tsunami” di vendite di tali strumenti travolse i mercati finanziari con perdite vertiginose sui prezzi e siccome le banche avevano sparso tali strutture in giro per il mondo e non si sapeva bene chi le detenesse le banche cominciarono a guardarsi “in cagnesco”, con diffidenza reciproca, e smisero di prestarsi i soldi l’una con l’altra: nel giro di un paio di mesi si inaridì il mercato interbancario dei depositi, uno dei più liquidi al mondo. Coloro che avevano problemi di liquidità perché avevano finanziato investimenti a lunga con raccolta a breve – come Lehman Brothers – o che avevano “venduto protezione” da rischio credito in maniera sconsiderata mediante i famosi CDS – come la americana AIG – fallirono miseramente nel volgere di poco tempo.
La credibilità delle società di rating ne uscì a pezzi: accecati dal lucrose commissioni avevano seriamente sottostimato le perdite in caso di insolvenza insite nelle strutture di cartolarizzazione crediti.
E i risk manager dov’erano? Dormivano alla grande? Innanzitutto va detto che il top management delle banche non aveva dato molto retta al consiglio delle autorità di vigilanza che i risk manager fossero indipendenti dai responsabili delle funzioni crediti e finanza. In alcuni assetti organizzativi la funzione di risk management si trovava in posizione gerarchicamente subordinata ad altre funzioni e non aveva un “peso” e una posizione di “indipendenza” decisionale tale da poter intervenire bloccando o limitando l’operatività della banca.
I desk responsabili dei derivati e della finanza strutturata, cioè quelli che facevano i profitti maggiori all’interno delle banche, godevano di una posizione di potere elevata e tale da essere di fatto incontrollati.
Anche le politiche di remunerazione e di erogazione dei bonus erano tutte incentrate su obiettivi di utile di breve periodo.
Si erano creati dei compartimenti stagni o per usare la terminologia sociologica – introdotta sempre da Gillian Tett – dei “silos” culturali a più livelli: a livello di singola banca, tra banche e tra regulator.
All’interno della singola banca i diversi dipartimenti operavano a compartimenti stagni (14), senza grande scambio di informazione tra di loro se non verso l’alto e, nel contempo, il top management per motivi anagrafici e culturali non aveva gli strumenti adatti a comprendere i rischi che le diverse unità stavano accumulando.
Tra banca e banca le prassi di mercato più diffuse, basate sull’assenza di trasparenza circa i modelli di valutazione, i contratti e le basi dati informative utilizzate, impedivano a ciascuna banca di sapere esattamente cosa stesse facendo la concorrenza e quindi anche di percepire la dimensione dei rischi che si andava accumulando.
Nel mondo politico ed economico soprattutto anglosassone era diffusa la convinzione che globalizzazione, libero mercato e innovazione finanziaria fossero “di per sé” fenomeni positivi, che “la dispersione del rischio di credito tra diverse tipologie di investitori avrebbe reso il sistema finanziario globale più resistente” (15). Tra le autorità di vigilanza la frammentazione tra diverse authority negli USA e diverse nazioni in Europa e la mancanza di basi dati di informazioni “globali” su derivati e cartolarizzazioni impedì a queste ultime di “collegare i punti” e capire cosa stesse succedendo.
E così arrivò la grande crisi finanziaria del 2007-09 con la successiva recessione mondiale e la crisi del debito sovrano in Europa del 2011-12, crisi dentro la quale l’Europa è ancora impantanata.
Vincoli e restrizioni non esistono per le banche stesse quando si tratta dei loro bilanci e della loro contabilità. Le banche hanno infatti il MODELLO INTERNO.
Lo dice la stessa BCE
https://www.bankingsupervision.europa.eu/about/banking-supervision-explained/html/internal_models.it.html
«I modelli interni, invece, consentono alle banche di stimare il rischio autonomamente».
Cosa significa modello interno?
Significa che la banca, in modo totalmente legittimo, può attribuire il valore delle proprie poste di bilancio in totale autonomia. In genere è una commissione interna, nominata e dedicata allo specifico ruolo, che determinerà a propria discrezione quanto vale un asset messo a bilancio.
Per esempio: la banca ha concesso dei prestiti che diventano inesigibili in quanto i debitori si sono dimostrati insolventi. In circostanze normali, quella sarebbe una perdita, invece, i crediti inesigibili, possono rimanere a bilancio, come “crediti dubbi” fino a che la banca lo ritiene necessario.
Ma ci sono le autorità di vigilanza? Mi direte voi!…Si..Abbiamo visto come hanno vigilato bene. Ecco l’elenco completo di tutte le banche fallite. Tanto per inquadrare quante “sviste” sono avvenute: (grazie a Money.it per l’ottimo articolo)
https://www.money.it/banche-crisi-fallite-in-italia-elenco-dal-1892-ad-oggi
Ma le banche non è che falliscono. Si uniscono, si fondono, e continuano a fare business. Sono i soldi dei risparmiatori a sparire.
E adesso vi spiego una cosa. Io ho lavorato in banca per 32 anni. Ho visto cosa avviene con questi cosiddetti “crediti dubbi”. Avviene che ci vengono addebitati sopra interessi passivi. Ma non in base al tasso di fido accordato, ma al più alto tasso possibile sul limite di quello definito USURA da parte della legge. Oltre al tasso passivo, continuano ad essere addebitate tutte le commissioni regolarmente.
https://www.bancaditalia.it/compiti/vigilanza/compiti-vigilanza/tegm/?dotcache=refresh
In pratica, peggiore è la situazione del debitore, più alti saranno gli interessi passivi che la banca andrà ad addebitare e quindi maggiori saranno i profitti della banca!
Moltissimi di questi crediti inesigibili sono linee di fido, mutui, prestiti, sconfinamenti eccetera su aziende che hanno chiuso i battenti per colpa della crisi.
Anche se l’azienda non esiste più, la banca continua ad addebitare interessi e spese sul conto corrente d’appoggio e lo può fare legalmente grazie al Modello Interno.
Vediamo adesso qual’è la situazione delle imprese italiane.
Prendo un articolo a caso, con un titolo molto significativo:
https://www.editorialedomani.it/economia/italia-aziende-fallimento-crisi-stato-insolvenza-dati-report-cerved-2025-mkh5gw53
Quando leggiamo notizie del genere, con i dati CERVED alla mano, e rapportiamo questo totale disastro economico delle aziende italiane ai mega profitti delle banche, alla luce della modalità contabile delle banche, io proporrei un invito quanto meno alla circospezione. Quella sensazione che parte dalla pancia e ti fa dire: « Mmmmm…aspetta un attimo…»
Ricapitoliamo per capire meglio:
da un lato abbiamo il film HORROR del massacro del tessuto aziendale italiano
dall’altro abbiamo utili record delle banche derivanti dagli interessi passivi e dalle commissioni
Adesso sommiamo 1 + 2 e valutiamo in base alle precedenti crisi economiche.
Non voglio dire io quel’ è il risultato; se una persona ha un minimo di buon senso, ritengo che ci possa arrivare da sola. È almeno probabile che possa essere prudente NON FIDARSI TROPPO. Anche perché la componente principale del listino azionario italiano, il FTSEMIB è dato dalle banche. Finché si ha la percezione che non vi siano problemi nelle banche, il listino continua a salire pompato proprio da quella percezione.
https://www.borsaitaliana.it/borsa/azioni/ftse-mib/lista.html
Per concludere, voglio raccontare un’altra storia di banca che riempiva i titoli dei giornali con notizie sempre positive simili a quelle degli UTILI RECORD di oggi.
Una banca “fichissima” che sembrave andare benissimo. Una banca di cui la gente si fidava. Tutti volevano portare i propri risparmi lì; dai direttori con i completi firmati e la cravatta col nodo Windsor e le cassiere simpatiche col generoso décolleté.
Questa banca l’ho conosciuta da vicino perché me ne sono occupato personalmente con la procedura di migrazione dovuta al Risiko Bancario successiva all’operazione con Capitalia.
I miei ex colleghi con cui ho parlato trovandomi in queste filiali dopo il crack, mi hanno raccontato di soldi a sfare e di riunioni in cui si era obbligati a ballare sui tavoli per auto esaltarsi. Un senzo di IMMORTALITÀ. Quell’euforia data da chi crede di aver trovato il sistema di fare un sacco di soldi più degli altri.
Ebbene: queste storie finiscono sempre male. Leggiamo ora la stroria di questa banca e scommetto che vi eravate già dimenticati:
LA BANCA DI CUI VI VOGLIO RACCONTARE È LA………………………………………
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